Sent. Corte di Cassazione 1183/2007

Delibazione di sentenza straniera – Danni punitivi – Contrarietà ai principi di ordine pubblico interno

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, sentenza n.1183/2007 (Presidente; G. Fiducia; Relatore: N. Fico)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

J.P. ha adito la corte d’appello di Venezia per la delibazione della sentenza della corte distrettuale della contea di Jefferson (Alabama, Stati Uniti), con la quale la Fimez s.p.a. era stata condannata a pagare la somma di 1.000.000 di dollari USA a titolo di risarcimento danni per la morte del figlio V. K. P. che, come ritenuto da tale sentenza, era stato sbalzato dal sellino della propria motocicletta a seguito dell’urto con un autoveicolo, aveva perduto il casco protettivo per difetto di progettazione e costruzione della fibbia di chiusura, prodotta dalla Fimez, e, cadendo a terra, aveva riportato lesioni gravissime al capo che ne avevano determinato il decesso.

La corte d’appello ha respinto la domanda ritenendo trattarsi di condanna a danno punitivo, in contrasto con l’ordine pubblico italiano.

Avverso tale decisione la P. ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a due motivi.

La Fimez ha resistito con controricorso ed ha spiegato ricorso incidentale condizionato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Vanno preliminarmente riuniti i ricorsi, ex art. 335 c.p.c.

Col primo motivo (insufficiente e contraddittoria motivazione) la ricorrente principale ha dedotto che la sentenza impugnata è caduta in palese stridente contraddizione nell’affermare che la mancanza di motivazione non costituisce condizione ostativa alla delibazione in Italia di un provvedimento del giudice straniero [1], giusta la giurisprudenza di questa corte, e nel ritenere, nel contempo, di poter desumere dalla mancanza di indicazioni giustificative della determinazione del danno da parte di detto giudice natura e finalità punitiva della condanna al risarcimento, e che, comunque, la corte di merito ha errato nel ritenere eccessiva la liquidazione e nell’attribuire ad essa, apoditticamente, in base a tale semplice errata valutazione, finalità sanzionatoria e affittiva propria dell’istituto delle punitive demages noto al diritto anglosassone e, in particolare, alle corti statunitensi.

La censura è infondata e inammissibile insieme.

Non v’è alcuna contraddizione tra l’affermare che la mancanza di motivazione non impedisce la delibazione in Italia di un provvedimento del giudice straniero e il trarre da quella stessa mancanza argomento per attribuire alla condanna al risarcimento del danno comminata da quel giudice natura e finalità punitiva e sanzionatoria.

Ne tale attribuzione può ritenersi apodittica, come sostenuto dalla ricorrente principale, poggiando essa sia sulla carenza di qualsiasi indicazione circa i criteri seguiti per la determinazione dell’importo del risarcimento, nonché circa la natura e la specie del danno arrecato, alla eliminazione delle cui conseguenze è volta la condanna, sia una valutazione di eccessività o sproporzionatezza della somma liquidata, in se, attesi i criteri generalmente seguiti dai giudici italiani, e in relazione a quanto già di considerevole conseguito dalla P. allo stesso titolo dalla conducente dell’autovettura con la quale era andato a scontrarsi la motocicletta del figlio, dalla società produttrice del casco a da altri soggetti pure convenuti in giudizio.

D’altra parte, l’apprezzamento del giudice della delibazione sull’eccessività dell’importo liquidato per danni dal giudice straniero e l’attribuzione alla condanna, anche per effetto di tale valutazione, di natura e finalità punitiva e sanzionatoria si risolvono in un giudizio di fatto, riservato al giudice della delibazione stessa, insindacabile in sede di legittimità se, come nella specie, congruamente e logicamente motivato.

La corte di cassazione, infatti, può censurare il giudizio della corte di appello in ordine alla definizione del concetto di ordine pubblico interno e controllare la congruità della motivazione addotta, ma non anche l’apprezzamento del giudice di merito circa il contenuto del provvedimento da delibare, trattandosi di indagine di fatto riservata al medesimo giudice (Cass. n. 1266/1972, n. 3709/1983, n. 3881/1969).

Col secondo motivo (violazione dell’art. 797, n. 7, c.p.c.) la ricorrente principale ha dedotto che la sentenza della corte statunitense non è in ogni caso contraria all’ordine pubblico interno, conoscendo anche il nostro ordinamento civilistico istituti aventi natura e finalità sanzionatoria e affittiva, quali la clausola penale e il risarcimento del danno morale o non patrimoniale.

Anche tale censura è infondata.

La clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva.

Essa assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant’è che se l’ammontare fissato venga a configurare, secondo l’apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o sconfinamento dell’autonomia provata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta.

Quindi, se la somma prevista a titolo di penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito e da una rigida correlazione con la sua entità, è in ogni caso da escludere che la clausola di cui all’art. 1382 c.c. possa essere ricondotta all’istituto dei punitive demages proprio del diritto nordamericano, istituto che non solo si collega, appunto per la sua funzione, alla condotta dell’autore dell’illecito e non al tipo di lesione del danneggiato, ma si caratterizza per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato e il danno effettivamente subito.

Del pari errata è da ritenere qualsiasi identificazione o anche solo parziale equiparazione del risarcimento del danno morale corrisponde ad una lesione subita dal danneggiato e ad essa è ragguagliato l’ammontare del risarcimento.

Nell’ipotesi del danno morale, infatti, l’accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive demages, come si è visto, non c’è alcuna corrispondenza tra l’ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito.

Nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così com’è indifferente la condotta del danneggiante.

Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato.

E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi in re ipsa (Cass. n. 10024/1997, n. 12 767/1998, n. 1633/2000).

Il ricorso principale va dunque respinto.

Il ricorso incidentale non risulta notificato alla parte nei cui confronti è stata dalla corte ordinata l’integrazione del contraddittorio, per cui ne va dichiarata l’inammissibilità.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La corte, riuniti i ricorsi, rigetta il principale, dichiara inammissibile l’incidentale e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Roma, 18/10/2006.

Depositata in Cancelleria il 19 gennaio 2007.